“Wasted Days”

“Wasted Days”

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Esco. Scendo le quattro rampe di scale. Non so da dove arrivi ma c’è un filo di luce ad illuminarle. Vorrei non premere l’interruttore ma se incontrassi qualcuno potrei farlo spaventare. Meglio evitare. Apro il portone. Il mio corpo cerca aria. La mia mente un respiro più fresco.
Guardo a destra ed a sinistra, appena fuori dal cancello. Le gambe reggono. Allora cammino. Un giro piccolo per il mio quartiere. Scorro tra i dischi che ho nello smartphone. Ma poi decido per un random globale. Premo un po’ a caso e funziona. Parte la musica. Intorno scene di povertà. Una persona parla al telefono. E’ alterata, grida. Fa piccoli gesti con la mano. Poco più avanti quacuno fruga tra i rifiuti. Le macchine passano veloci nella strada. Sento in lontananza delle sirene. Da una moto gridano qualcosa ad una ragazza che cammina nervosa. Ha un vestito verde corto e le gambe un po’ grosse. Afferra il telefono e compone un numero, o forse fa finta. Ma tiene l’apparecchio ben stretto all’orecchio. Ha gli occhiali. Ed un neo grande sulle labbra. Due ragazzi stanno seduti sul marciapiede. Parlano una lingua che non conosco. Allungano la prima vocale ad ogni scambio di battuta. Sembra quasi che anche loro stentino a capirsi. Procedo salendo lungo un ponte che mi appare più buio del solito. Ma voglio camminare. Vedere se le cose miglioreranno. Metto una mano in tasca ed alzo il volume senza tirare fuori il telefono. Dall’altro lato un uomo procede in senso contrario. Si ferma dietro una colonna. Piscia e spacca per terra una bottiglia di vetro. Dal rumore si direbbe che sia andata in mille pezzi. Passa una macchina. Urlano e schiamazzano con un accento ed una cadenza che conosco fin troppo bene. Cammino. Cerco qualcosa che mi possa piacere vedere. Penso di dover mandare un messaggio a Nino e Franz. Ma il corpo ha preso un passo e chiede di non rallentare. Lo assecondo. Poco dopo il ponte, sulla destra ci sono tre persone e due valigie aperte. La luce viola di un bar si mischia a quella dei lampioni. Si scambiano vestiti mal ripiegati e biancheria. Hanno l’aria di essere dell’est. Parlano ad alta voce. C’è una macchina scassata proprio davanti a loro. Li aspetta. Sembra uscita da un film di Kieslowski. Il motore è acceso. I finestrini sono abbassati ma non distinguo nulla all’interno oltre al bagliore di una sigaretta. Un pensiero mi attraversa la mente e decido di tornare. Il pezzo dei Cloud Nothings (ecco chi sono, mi viene in mente solo in quel momento) suona ancora. C’è una ripartenza dopo una stasi elettrica. La voce gracchia accattivante e paracula.
Attraverso.
E ritorno sui miei passi.
All’imbocco del ponte noto due figure. Sono due ragazzi. Compiono gesti decisi, quasi a scatti. Premuti contro il muro cedono ad un abbraccio, poi si baciano. C’è una busta bianca ai loro piedi. E’ caduta pochi secondi prima. Quello più alto ha i capelli che ricordano quel cantante che si è sparato in bocca ed a cui un po’ tutti abbiamo voluto bene. E’ lui quello appoggiato contro il muretto. L’altro è moro. Ha i capelli corti. Ed un tatuaggio che spia da sotto la manica della t-shirt bianca. Avrei voluto essere dall’altro lato per non sporcare la loro intimità. Vedo delle lacrime, e cerco di accelare il passo. Per fortuna sono certo che non mi abbiano notato. Sento d’un tratto la stanchezza arrivare. Diversa da prima. Meno opprimente. Più fisica. C’è vento e si sta bene. Non ho poi camminato così tanto. Torno a casa in un tempo che sembra durare la metà. Salendo le scale mi rendo conto che il brano stava andando in loop e mi chiedo quanto tempo sia stato fuori. Chiudo la porta, accendo la tv. C’è un rallenty con le immagini delle olimpiadi. Sospiro. Esce aria calda. Faccio una doccia. Subito dopo aver scritto queste cazzate.

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