Panama

Panama

E’ poco più che una sagoma attraverso i vetri appannati dell’autobus. Alta, magrissima, è vestita di bianco ed ha una valigetta in mano. Il colore dei suoi abiti risalta nel grigio della prima mattina di pioggia che incontro andando a lavoro dopo le ferie. In mezzo a passanti in abiti d’ordinanza e k-way scuri risalta come una parola evidenziata in giallo su un foglio stampato. Ma a risaltare più di ogni altra cosa, nella semioscurità dei portici, è il suo cappello. Bianco anch’esso e listato di nero. Apparentemente è un panama. Passeggia nervosamente descrivendo brevi traiettorie sghembe con passo marziale. Fa quasi uno scatto quando si volta. Tàc. E si gira. Una mosca bianca che impazzisce contro la finestra orizzontale della pavimentazione, in attesa che qualcuno apra il portone che gli sta a pochi passi consentendogli di volare dentro.

L’uomo orientale è seduto in senso contrario a quello di marcia. Ha lo sguardo fisso davanti a sé. Provo a girarmi per vedere cosa stia guardando ma vedo solo il vetro velato di condensa che tappa il fondo del 20A. Jeans, polo chiara aperta in stile Celentano e giacca della tuta. Bianca. Il suo tesoro è ben custodito in un sacchetto di carta avvolto con più giri all’estremità superiore. Lo stringe saldamente con entrambe le mani e mi chiedo perché non lo metta nello zainetto grigio che ha con sé. Nonostante tutto ha qualcosa di elegante ed è piacevole averlo nel cono visivo imprigionato dai vetri e dalle lamiere di questo mezzo pubblico. Quando si alza per la sua fermata un po’ mi dispiace vederlo andar via. Libera una mano per prendere l’ombrello. Faccio in tempo a vedere che lo apre premendo un bottoncino sulla sua asta, poi le porte si chiudono e l’autobus riparte. Controllo l’orario e guardo dove siamo: manca poco. Rimetto il telefono in tasca e mi preparo a scendere sotto la pioggia di questo lunedì mattina.

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