Le astronavi bianche

Le astronavi bianche

Un giorno lo porteranno via.
Mi guarda dritto negli occhi.
Non dimenticare mai chi sei“, dice. “Mai.
Le aspetta.
Per quel momento“, mi ha detto una volta di sfuggita, “voglio solo creare un po’ di benessere. Voglio che ci sia una bella atmosfera quando arriveranno. Solo questo.
Le astronavi bianche.
Atterreranno su quella strana valle piena di crepe e canali. Con una sola manovra, cozzando tra loro e posandosi una sull’altra. Come nella vignetta di quel fumetto che da bambino avrà letto centinaia di volte, il pomeriggio o la sera, prima di iniziare a dormire.
Lui non opporrà resistenza. “E perché dovrei?“, mi ha chiesto quella volta che eravamo seduti sul quelle fetide poltrone blu.
Chissà dove eravamo.
Ma non era una domanda retorica: quel giorno voleva una risposta.
Non l’avevo capito.
Voleva qualcosa su cui poter argomentare. Ma non ho saputo far altro che chinare la testa e fare una smorfia d’arresa.
Alla porta poi busseranno dopo. Ed io sarò vestito bene, che mica posso sfigurare.
Per sicurezza lascerà degli appunti. Dice così.
Ma dovrà farlo prima che arrivino.
Io in fondo l’ho capito: si preoccupa perché poi sarà completamente assorbito dalla loro presenza e non gli sarà più possibile.
Dovrebbe organizzarsi e scrivere tutto già da ora. Così da poter avere dei margini per correggere, modificare, cancellare.
Vorrei dirglielo ma mi dispiace troppo che vada via.
E rimango zitto.
Vigliacco.
Chiudo gli occhi per allontanare il pensiero e per non vedermi nello specchio gigante appeso alle sue spalle.
Non dimenticare mai chi sei. E fai che i tuoi amici facciano le stesso. Non dimenticare le cose belle. Perdona quelle brutte. Ma solo per te stesso. Il male non si cancella, lo si può solo mettere da parte per non vederlo.
Parlavamo di questo l’ultima volta che siamo usciti insieme.
Il solito giro di birre e di discorsi sempre carichi di energia, gonfiati fino a farli esplodere in risate fragorose o in urla più animalesche che umane.
È da un pezzo che non lo sento e che non parlo con lui. Sempre troppo presi, tutti e due.
L’ho rivisto una sera, vicino casa sua, passando con il bus. Con quei tipi mai visti prima. Facce losche. Brutte.
Mi hanno guardato mentre li osservavo.
Lui non si è accorto di nulla.
Aveva la barba un po’ lunga e parlava gesticolando, rapito in un monologo che nessuno seguiva.
Jeans scuri e camicia chiara. Non si è girato. E il gesto di saluto è morto nella mia mano destra, appoggiata al finestrino.
Ripenso a lui su questo treno che mi porta via, lontano, verso la mia nuova casa, lungo una linea quasi retta che taglia la cartina in due metà.
So che ci vedremo ancora una volta. E che sarà anche l’ultima. E devo assolutamente trovare il tempo per pensare a cosa non potrà essere non detto.
A cosa voglio che porti con sé quando quei dischi atterreranno sul palmo della sua mano.

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