Boilermaker

Boilermaker

“Cosa c’è?” mi chiede. Il locale è illuminato solo dalle luci puntate sul gruppo che sta suonando. Non riesco a capire se stia sorridendo o meno. Non la conosco, probabilmente mai vista prima, e questo non mi aiuta a capire. È a fianco a me, sulla destra, appena un mezzo passo più avanti. I ricci le pendono seguendo l’inclinazione della testa. Attende una risposta, ferma in questa posizione. Ha visto i lacrimoni che mi gonfiavano gli occhi, mi ha visto fare gesti strani, ha fatto la domanda ed ora vuol sapere: è giusto.
“Starnuti”, dico. “Tanti”. E vorrei aggiungere “Sono diventato come mio padre che quando ne fa uno ne seguono altri trenta, se va bene”. Ma dalla bocca mi esce solo un “e la stagione”. E in cuor mio spero non si sia accorta che ho dimenticato di accentare la copula del predicato nominale. Riccioli Neri ora sorride, e si vede. Sul naso piccolino sono posati occhiali con una montatura molto simile a quella dei miei. Se li sistema spingendoli con un dito e prima di abbassare la mano fa una specie di tre nella mia direzione. Una sorta di mezzo saluto. Riprende a seguire il concerto. Io resto un po’ lì. Poi vado verso la porta, diretto al bar per prendere un altro boiler maker. Mi muovo a stento nella calca che ha riempito il locale fino al sold-out. C’è un sentimento di diffusa allegria che in parte mi contagia. Al bancone mi accoglie lo stesso ragazzo, con la stessa frase delle volte precedenti: “Ciao”. Non originale, ma comunque paiPenso ai Jesus Lizard mentre spilla la pinta. Mando giù lo shot, pago e prendo il bicchiere di plastica. Quando rientro lo spazio tra una persona e l’altra non esiste più. C’è solo un blocco unico di gente che si muove nel campo magnetico della musica. Forzo una breccia e guadagno metri. Di tanto in tanto un urto mi fa cadere un po’ della birra che tengo in alto a mo’ di trofeo. Non riesco ad andare più avanti. Sono circondato da giganti che mi coprono qualsiasi possibile visuale. Ma c’è una ragazza che mi fa spazio e seguo da lì il resto del concerto. Scaccio pensieri che proprio non voglio avere. Mi viene un’intuizione e la voglio condividere via sms con il mio amico Sal. Bevo un sorso al suo bene e torno con la mente alla musica, da cui mi lascio coprire.
Non so spiegarmi perché, ma ogni pezzo che inizia mi ricorda un brano ben preciso di un gruppo molto distante da quello che si sta esibendo.
Faccio mente locale e lo trovo nella playlist del telefonino.
Bene: lo ascolterò al ritorno.
I due canadesi continuano ad inanellare canzoni senza fare soste e quando finiscono salutano e vanno via. Non fanno bis. Buon gusto e senso della misura. Un punto in più per loro.
Esco in strada, la nebbia si è un po’ infittita. Pesco dalla giacca il telefono. Infilo il jack e metto le cuffie. L’auricolare destro è scassato, devo sistemarlo a mano. Faccio partire l’app. Cerco la canzone: Silver Machine, nella versione dei Thin White Rope. Un doppio live monumentale, quello. Cammino. Via San Donato, il mio quartiere. C’è un bar che è ancora aperto e sembra invitarmi ad entrare. Ma “sto bene così”, decido, e proseguo oltre. La strada, la musica alta in cuffia, la sospensione dai pensieri difficili, la morsa che si allenta un po’: ho già avuto questa sensazione. E mi viene in mente quella sera che ho lasciato casa di Nino dopo il solito cibo buono, le belle chiacchiere di amicizia e conforto che mi accoglievano in una città nuova. La birra che poi ad un certo punto non entrava proprio più. E quell’odore di spezie. Le cazzate che battevano la paura tre a zero ed anche il dolore che se ne usciva a testa bassa da quella partita…
Quella sera in quel bar ci sono entrato. Incredulo dello spazio che d’un tratto si era formato, pronto ad accettare altri 33cl.
Gli Oneida giocavano con i miei neuroni avvolgendoli nei quattordici minuti e quattordici secondi di “Sheets of Easter”. Ricordo di aver fatto il giro lungo prima di rientrare a casa. Dovevo ascoltare il brano per intero. Rob era ancora sveglio. Abbiamo tirato tardi raccontandoci un po’ di cose seduti al tavolo poggiato al muro.
E il rievocare si esaurisce in quel perfetto momento d’amicizia.
Sono quasi arrivato a casa.
Guardo a sinistra prima di attraversare. Poi spingo il cancello grigio.
Notte.

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