Rimbalzo emotivo

Rimbalzo emotivo

Ultimamente mi sta capitando di andare da solo ai concerti. Gli amici, chi per mancanza di soldi, chi per mancanza di forze, chi per mancanza di interessi, per altri impegni presi in precedenza o per momenti difficili nella gestione di un menage, non ci sono. Non vengono. Stanno a casa. Ad aspettare che inizi una nuova giornata di lavoro o una nuova settimana. Contenti di quello che hanno, alcuni. Manifestamente scontenti altri. Ma tant’è. Ognuno poi ha le sue esigenze, le sue preferenze, i suoi cazzi ed è sacrosanto che si faccia quello che si vuole, quando si può. E così mi ritrovo in posti pieni di gente che sembrano quasi evidenziare il fatto che stia lì senza nessun altro. Come ieri. Ma non è una cosa che ferisce o che tira giù. Se vado è perché ne ho voglia. E si, anche perché a volte ho dentro talmente tanta rabbia e casino che solo la musica può fare qualcosa per sistemare. Restare a casa sarebbe, insomma, semplicemente la cosa sbagliata. Sono stanco. E l’ingresso ha un costo non indifferente. E poi domani ci sono i Liars, altro piccolo salasso. Ci penso una volta. Ma non due. Vado. Cammino nella nebbia. Con le cuffie che cercano di trasmettere buone vibrazioni. Piove. Quando arrivo c’è un po’ di fila. Bisogna aspettare ancora un po’. Poi entro, salgo, pago. Non c’è ancora nessuno. Scherzo con la ragazza al bar chiedendole uno shot del detergente Carrefour che ha vicino alla cassa. Ma non so scegliere se prenderlo on the rocks come lei propone oppure liscio. Decido per una rossa. Ci sono delle diapositive proiettate su una parete. Vecchie foto che mostrano artisti alle prime armi con atteggiamenti impacciati. E ci sono donne bellissime nei loro abiti tribali. Trovo uno sgabello nell’angolo sotto la scritta blu con il nome del locale e resto lì a bere la mia pinta prima che tutto inizi. Guardo in giro, leggo il programma del locale e scherzo con mio fratello inviandogli una foto ed una scritta che solo io e lui possiamo capire. Mi racconta di suo figlio e del camioncino dei pompieri, quello vero con sopra reali vigili del fuoco accorsi per spegnere un incendio a casa dei nonni. Non ha nemmeno due anni ed ha delle trovate degne di una sitcom quella meraviglia di marmocchchio. La gente continua ad entrare. Aprono la sala concerti. Faccio una seconda ordinazione e mi sposto dove anche gli altri stanno andando. Passa con simpatia il gruppo spalla. Con una cantante timidina e dalla voce eterea che parla un po’ di italiano con la forma del lei e che alla fine imbraccerà un basso ad una sola corda: impossibile non farsi intenerire. Scambio altri messaggi, mi fingo a volte sbronzo a volte sobrio. Non lo so nemmeno io. Dura solo quaranta minuti il concerto del gruppo principale. Molto intensi e ben suonati. La musica c’è ed arriva. Dritta, trova spazi, ne apre altri.

Quello che non c’è in questi casi è il rimbalzo emotivo con qualcuno. L’immediata condivisione di momenti di allegria. O di riflessione. L’attraversare insieme un flusso di suoni a volte morbido e gentile, altre volte travolgente. Non c’è uno sguardo da incrociare o un’espressione da scambiare. In un concerto visto in solitudine manca sempre qualcosa.
Non il sale sulla pietanza, ma il bicchiere di vino durante il pasto.

Ad esser sempre stanchi / non cambieremo mai / Scappando dai tramonti / Non cambieremo mai

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