Arcipelaghi

Arcipelaghi

Faccio i conti con il mio raffreddore mach 2 mentre lei chiacchiera con il suo amico. Non sento cosa si dicono, ma la cosa non mi disturba. Non mi interessa poi molto. A volte spingo il culo della discrezione ben in alto sui pioli della mia scala assiologica e mi va bene così. Sto bene. Fuori nevica. Il cubo di lime nuota placido e solitario nel mio drink e Paul Weller sta facendo un superclassico nell’altra stanza.
Al termosifone blu la tipa bassa dà il cambio a quella bionda col naso a becco. Vanno e vengono e sembrano voler contrattare qualcosa con una loro terza amica. In un primo momento erano lì tutte e tre, quasi incatenate al radiatore. Ridevano tra loro timide e un po’ impacciate. Poi si sono avvicinati a loro due esemplari di maschio adulto con barbetta ganza e vestiti del venerdì e nel giro di poche chiacchiere sono finiti al bar in fila per due col resto di una. Che da lì non si è mossa. La cicciona scosciata. Che poi non è né cicciona né scosciata. E ha un viso ed una sobrietà che le altre due possono solo sognarsi. È uno degli Esemplari a chiamarla così, suscitando le risatine con la i della nana e della donna uccello. Il fetore dei loro energy drink con vodka mi si ficca come un chiodo dritto nel cervello. Li lascio lì e torno dov’ero seduto, armato di sorriso metallico standard. Dico una banalità e poi attacco la bocca al bicchiere. Rigorosamente di plastica, senz’anima.
Per terra c’è un sacco di sangue. Un arcipelago rosso tra il tavolino e la porta del guardaroba. Nessuno lo ha visto. Nessuno lo nota. E nessuno ha badato a quel naso ed a come sia esploso con macabra eleganza un’oretta prima.
L’orologio dice che sono quasi le tre. La ragazza interrompe il trattamento della mini lampada -è stata tutta la sera con il viso illuminato dal suo cellulare- e mi consegna con gesto cerimoniale i paramenti, sacramente custoditi fin dal nostro arrivo per la dogmatica cifra di euro tre.
Saluto, stanno per andar via anche loro, quella con cui ero arrivato e l’amico che doveva incontrare. Ci sentiamo, certo che sì, a presto, come no, dai alla prossima e via così. Resto a zonzo per un’altra mezz’ora abbondante prima di rientrare. Il rumore dei passi sulla neve appena caduta trova strada e si insinua nelle cuffie che pure hanno un volume del tutto rispettabile. Tolgo i guanti, lascio un’impronta sul tetto di una macchina. E mi lecco le dita come un bambino.
La strada dietro casa è stata teatro di una guerra. Tutte le superfici bianche hanno un gradino scavato, segno evidente del lavoro degli artificieri del candido.

Mi risveglio con gli auricolari ancora in testa del tutto incapace di ricordare cosa abbia ascoltato prima di addormentarmi. Fuori una bambina grida felice “ha ricominciato, è inverno, è inverno!“. Sì. E io stavo dormendo il sonno dei giusti, prima che lo rammentassi a tutto il palazzo.

E’ l’otto dicembre. Ho un ricordo particolare che mi è stato tramandato, legato a questo giorno. Nel tempo ha assunto varie connotazioni. Si è arricchito, è cambiato, ha sbagliato strada, è tornato indietro, si è riformato come prima. Ho un ricordo.
E lo trasformo in un bacio per la mia nonna materna che per un attimo mi sembra quasi di vedere.

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