Quiete

Quiete

La senti arrivare nell’aria. Gelida ti copre il volto come una pellicola. Sono giorni di freddo e di stanchezza. Passano veloci, ammucchiandosi senza ordine, come fogli sparpagliati dal vento e poi messi in pila alla rinfusa.

Le telefonate al centralino dei taxi mouoiono in attese inutili e lei non sa bene cosa fare. Provo a tranquillizzarla dicendole di fare con calma e di prendersi il tempo necessario: sono a casa di amici e le lancette girano intorno a momenti di allegria. In televisione ricostruzioni poco credibili raccontano di morti tragicomiche. E noi rincariamo la dose, immaginandoci protagonisti più degni di quelle gesta. Giusto per esorcizzare le cose brutte. Il telefono vibra. Leggo il testo che appare. I taxi sono introvabili e le linee sono al collasso. Sta andando a prendere l’autobus. “Aspettami!“. Non riusciamo a scambiare altri messaggi sui tempi necessari e nel dubbio lascio il caldo di quella sala da pranzo per andare alla fermata dove scenderà. L’ultimo soggetto a essere commemorato nel programma è un tizio che ci rimette le penne cercando appagamento sessuale con un cuore di maiale furbamente collegato alla rete elettrica. That’s entertainment dico -o forse penso senza dire nulla- mentre esco dal portone.
Bianco.
My Bloody Valentine.
Quiete.
Il vento spruzza in faccia la neve, giocando irriverente come un bambino dispettoso. Aspetto che arrivi, malamente riparato dietro una colonna. Ma è tutto inutile. Passeggio, cercando un luogo più riparato in quello che sembra essere il portico più ventoso d’Europa. La faccina di mio nipote, chiusa in un cappuccio che lo fa sembrare un piccolo Inuit al mare, arriva sotto forma di mms. Mio fratello mi racconta del figlio e della passeggiata che hanno fatto in spiaggia. Mi chiede quando tornerò e un po’ si dispiace quando conosce la data. Io gli racconto del tempo, dei concerti visti e di altro. Nomino alcune persone che non conosce e provo a presentargliele a distanza, cercando di sorvolare sulle difficoltà e su cose che sarebbe complicato spiegare al telefono. Lo saluto quando la mano destra inizia a farmi male per il freddo e a soffrire d’invidia per la sorella e per il suo sciccosissimo guanto che indossa con fierezza.
Vedo un autobus avvicinarsi.
Attraverso fino alla pensilina. Ma è un po’ troppo presto per vederla scendere.
Quando arriva, venti minuti più tardi, sono praticamente imbalsamato. Si apre la portiera centrale e mi cerca con lo sguardo. Mi trova. Sono lì davanti. È contenta. Camminiamo. La ascolto. È piacevole. L’asfalto ghiacciato non va d’accordo con le sue scarpe e si muove tenendosi al mio braccio. Dall’altra parte della strada un gruppo di persone sale su un mezzo alla sua ultima corsa prima della sosta notturna. Non c’è quasi nessuno in giro. Ma noi abbiamo una meta e la raggiungiamo.

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