Una finestra

Una finestra

Rumore di fondo di:
Deathprod – Dead People’s Things

Rientravo sfinito ogni sera, in quella casa di 26 metri quadrati che bastava a me ed alla mia solitudine. C’erano alberi di ciliegio e aceri nel giardino del palazzo, lì, dietro alla vecchia rimessa degli autobus. Quando non era troppo tardi e sapevo di trovare ancora aperte le cucine, uscivo per mangiare un piatto caldo in una delle tante birrerie della città. Se stavo particolarmente bene, affondavo nella gastronomia locale e nei suoi sapori forti, allo stesso tempo attratto e disgustato dall’eccessiva dolcezza delle salse e dalle creme usate come condimento. Mi piaceva, quel Paese. Ma non ho mai avuto occasione di piacere io a lui. Nemmeno quando, per errore, ci tornai in vacanza qualche tempo dopo. Lì sono sempre stato un estraneo, nonostante gli sforzi. Gli sforzi di imparare una lingua che non avrei mai più parlato. Gli sforzi di prendere un accento che inaspriva anche i pensieri e urtava al palato. Gli sforzi di rimuovere i residui del passato, fermandomi a leggere ogni giorno la scritta che avevo attaccato alla porta: “Si attecchisce meglio dimenticando da dove si viene – Erri De Luca.” Volevo ridurre le distanze. Sentire meno lontano.

In tasca portavo un taccuino su cui avevo trascritto le parole e le frasi da utilizzare nei supermercati, nei caffè, nei ristoranti. O nell’emporio dove compravo i biglietti e il tabacco per la pipa che di tanto in tanto fumavo.

Quando ero fuori per cena cambiavo posto spesso: per non farmi vedere da solo negli stessi luoghi. E per dividere su più tavoli la mia ombra spaiata.
Una volta al mese telefonavo all’avvocato.
Non lo chiamavo mai per nome. Sapevo che non c’erano novità di alcun tipo ma lui era cordiale e cercava di raccontarmi più cose del dovuto, con fare paterno. Ormai c’era solo da aspettare le date che da tempo erano state fissate. Le monete cadevano veloci. E io perché non rientravo? Volevo stare ancora un po’ fuori? E si, forse facevo bene a distrarmi. Che tanto dalle nostre parti tutto andava a rotoli, a catafascio: uno schifo, una vergogna. Da restar perplessi. Fortunato io che non seguivo i notiziari. Era questo il tenore di quelle conversazioni.
Le comunicazioni urgenti, quando c’erano state, erano arrivate via fax al numero del portiere dello stabile, un uomo magro e di bassa statura che vedendomi passare la mattina mi rincorreva e richiamava la mia attenzione storpiando il mio cognome. La G al posto della Zeta. E poi elideva una E, verso la fine. Era una delle tre persone che avrebbe potuto riconoscere il mio nome scritto per esteso, se lo avesse letto. Lo immaginavo mentre annuiva dopo averlo pronunciato a fatica. Gli occhiali opachi sul naso aquilino, la carnagione cinerea ed i capelli neri ancora folti a far da contrasto con la punteggiatura grigia delle sue guance scabre. Regalavo sempre qualcosa per un caffè: a volte spiccioli, a volte banconote e lui le accettava con un inchino brusco e veloce che aveva un che di militare. La miseria tangibile di quella città mi faceva sentire in colpa per la carta termica che veniva sprecata. E allora ripagavo in simbolici caffè, in un paese che il caffè nemmeno lo beveva.

Quando perdevo qualche minuto in ufficio e non riuscivo a salire sul tram, rientravo a piedi, camminando sul pavé, perennemente velato di umidità. A volte le riflessioni non spurgate e la stanchezza tenevano la mia testa bassa. Arrivavo a riconoscere i punti in cui dovevo voltare più dalle insegne riflesse negli specchi neri di pietra che da quello che avevo davanti. In quelle occasioni, o quando fuori era bufera, preparavo da mangiare nel cucinotto a scomparsa, sistemato dentro il mobile a specchio accanto al frigorifero. Nelle intenzioni di chi lo aveva messo lì, quello specchio avrebbe dovuto aumentare le dimensioni spaziali nella percezioni degli abitanti. Ma rifletteva solo un vuoto di finto marmo che risucchiava come un vortice. Le pentole le conservavo sopra il frigo. Erano così leggere che sembravano fatte di latta. Potevano essere deformate con la semplice pressione di un dito. Le guardavo sempre con teatrale diffidenza ogni volta che le maneggiavo, come se si trattasse di un rituale scaramantico importante. A sinistra del lavabo c’erano i due fornelli del piano cottura. Due soli. Me li facevo bastare. Impiegare più tempo per cucinare non era soltanto una perdita di tempo. Era anche passare, il tempo. Il fuoco produceva un odore che per me era nuovo: simile ad una cipolla in decomposizione, ma meno intenso e più pungente. Era come se, non bruciando tutto, una parte del gas restasse nell’aria. All’occorrenza aprivo una finestra per un minuto o due. Ma poi c’era da scegliere se morire assiderati o asfissiati. E allora chiudevo. Sentendomi misteriosamente immune ai veleni.

In casa c’era una radio. Vecchia, scassata e con un solo altoparlante funzionante. Quando l’accendevo, per la prima manciata di secondi si sentivano solo disturbi di vario tipo. Fruscii, oscillatori, cose così.
Non avevo televisore.

Una sera Diana, la prostituta che viveva nell’altro interno del pianerottolo, venne a chiedermi aiuto. La feci entrare e notai che era un po’ spaesata. Cercava qualcosa con lo sguardo ma non riusciva a trovarlo. Con un gesto un po’ brusco mi afferrò per una mano e cercò di tirarmi verso l’uscio. “Hei, ma che succede, aspetta” dissi puntando i piedi per terra. Capendo il suo gesto si mise a ridere. Aveva denti larghi e bianchi. Con un cenno della mano mi chiese scusa e poi si coprì la bocca, mimando imbarazzo. Fece un passo indietro e si mise ad aspettare compita con la sua faccia da bambola bionda, le guance grandi e rosse ed il corpo robusto di una contadina. Era più alta di me. Indosso aveva una tuta dai colori sgargianti. E zoccoli di plastica chiusi sul davanti, a loro volta molto colorati. Guardava l’unica fotografia che avevo appeso nella stanza, scattata e stampata la sera prima che partissi. Raffigurava un’amica nell’atto di mandare un bacio, soffiato da un palmo. “A-more“, provò a dire. Negai, sorridendo. C’era il fuoco sotto la minestra di legumi che stavo riscaldando. Con una mano girai la manopola e la seguii nel suo appartamento. Mi indicò subito il televisore, con gli indici di entrambe la mani, soddisfatta come chi ritrova la parola che non riusciva a ricordare.
Ecco cosa cercava da me, prima.
Lo accese ed iniziò a cambiare canale senza sosta. Ad ogni cambio ripeteva sempre una stessa breve parola per indicare che non andava, non funzionava, si era rotto. Sníh. Fuori dai vetri delle finestre e dietro quello del televisore. Avrei voluto scherzare e dirle che erano solo le previsioni del tempo e che quindi tutto funzionava regolarmente, ma non avevo idea di come fare. Di cosa dire. Pronunciai solo la parola sníh, neve nella sua lingua e lei sorrise di nuovo, probabilmente senza capire cosa in realtà volessi intendere.
Non era mica una veggente. Quella, la veggente, c’era davvero nel palazzo: abitava nel seminterrato, vicino agli uffici amministrativi. Una vecchietta pallida e dallo sguardo torvo. Mi faceva un po’ paura quella donna. Dopo aver armeggiato col menu in sovraimpressione, incomprensibile ed inutile, scovai dietro l’apparecchio un interruttore incassato con un disegnino sopra: antenna interna / antenna esterna. O qualcosa del genere. Con l’aiuto di un coltello rimisi al suo posto la levetta e le immagini presero a muoversi come fantasmi sulla pelle lucida della donna. Diana esclamò qualcosa, battendo una sola volta le mani, contenta. Declinò il mio nome in maniera buffa, sembrava la crasi di un invito ad uscire. Ma non potevo spiegarle nemmeno il senso di quell’assonanza che di certo l’avrebbe fatta divertire.
Tornai alla mia zuppa.
Riaccesi il fuoco.
Il suo appartamento era meno triste del mio. Meno spoglio. E le luci erano più forti: era casa sua. Era una casa. Dove vivevo io non lo era ancora. Forse avrei dovuto comprare un tappeto. O delle tende. Appendere altre foto.
Facevo un lavoro di merda, pagato malissimo. E dovevo star via anche il sabato mattina. Non parlavo con nessuno se non in ufficio, in inglese. Eppure non ho mai avuto più chiaro il significato della parola “vita” come in quei momenti, spezzati e sospesi nel tempo.

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