Serve per.

Serve per.

La fila per i controlli arriva dopo il News Café“. Scrivo questo a Beppe, alla fine di un breve sms. Lui sta arrivando al lavoro e quel fiume di persone tra poco se lo troverà davanti.
L’idea era quella di darci una pacca sulle spalle prima che io partissi, ma il tempo continua a restringersi. Quando capiamo che non avremmo più fatto in tempo a vederci, ci scambiamo un ultimo messaggio, senza però dirci Ciao. Che poi è stato un ottimo modo per salutarci. Il modo nostro: un insulto reciproco che vale come un abbraccio e a noi basta così.
Rimetto il telefono in tasca e Nicola è lì che apre il suo bagaglio. Cerca qualcosa che non trova. Sbuffa, lascia cadere il trolley per terra e si leva la strettissima giacca jeans che ha indosso. Alla sua destra c’è un tizio corpulento con il computer sulle gambe che scrive, scrive, scrive e suda senza sosta. Pure gli occhiali gli sudano. Nicola lo guarda solo per un attimo, muovendo leggermente le braccia come a soppesare quello che ha in mano, poi si gira dall’altro lato dove c’è l’ultima poltrona della fila e dove sono seduto anche io.
Mi passa la giacca senza chiedermi nulla. Dice solo “Per favore…” facendo attenzione a pronunciare anche i puntini sospensivi. Da sbracato che ero, mi metto a sedere più composto e rispondo dicendo “Sì, vai“: non aveva molto senso come risposta ma la cosa, a quanto pare, non ha creato alcuno scompiglio. Mi risponde con un gesto veloce della mano e si rimette all’opera, tirando verso di sé il bagaglio. Lo riapre e ci si tuffa di nuovo dentro. Sembra di vedere un domatore che infila la testa nella bocca di un leone. Deja-Vu. Una ciocca di capelli color rame sfugge dall’elastico che li teneva ben stretti sulla testa e quando la sistema dietro un orecchio noto che ha delle mani molto sottili. E molto bianche. Molto femminili. È solo un attimo, distolgo presto lo sguardo, per discrezione. Ma la sua voce richiama di nuovo la mia attenzione. Mentre parla continua a frugare. Non si gira. Più che domande sono esclamazioni un po’ buffe.
Lego qualche acca ad una o due vocali e le lascio affacciare fuori dalla bocca, segnalando con una timida risata la mia presenza.
Poi mi passa un blister con dentro alcune pasticche. “Queste mi servono per stare bene sul volo” mi spiega prima di rimettere testa e mani dentro il trolley. È molto grande. Mi chiedo come possa portarlo a bordo. Questa volta la pesca dura poco e quando riemerge ha in mano delle cuffie bianche. Enormi. Mi affida anche quelle. “Queste mi servono per la musica.” Si gira come se aspettasse una risposta da me. Ha la faccia un po’ rossa e non capisco se dipenda dalla postura o se quello sia il suo normale colorito. Mi guarda ma non dico nulla, è tutto troppo veloce, non mi dà il tempo. Chiude la cerniera del bagaglio e chiosa: “Servono anche per dormire, quando non c’è musica…“. Ha un piercing a forma di anello nella narice sinistra. Ed il naso leggermente all’insù. O così mi sembra. Mentre riprende una ad una le cose che mi aveva dato in consegna, racconta che sta andando a Bucarest. Ha il volo tra un’ora. Poco prima di quello mio. Vuol sapere dove vado e se sono di Bologna. Domande molto veloci. Una raffica.
Sta di fuori” penso, cercando di non trascrivere queste parole sulla mia faccia.
Poi nota il libro di Carver che ho sulle gambe. Mi chiede se può prenderlo e glielo passo. Ha letto qualcosa ma non ricorda cosa. Spiego che quella è una riedizione di una sua vecchia raccolta di racconti, finalmente riproposti nella loro versione originale e non tagliata dall’editore. Ed è la seconda volta in poco più di dodici ore che mi trovo a raccontare sta cosa. Mi restituisce il libro annuendo senza troppa convinzione. Poi mi tende la mano. “Nicola“, dice. Fa un secondo di pausa ed aggiunge con aria un po’ rassegnata: “Lo so, in Italia è nome di uomo ma da noi è di donna“.
Solo allora capisco che non è italiana.
Allarga le braccia, fa una smorfia col viso e si alza. Ci auguriamo Buon Viaggio e fa per andare via.
Sulla poltrona che lascia vuota, noto un rettangolo bianco. Lo giro: è la sua carta d’imbarco.
La chiamo: “…e questo… ti serve per partire…
Lei capisce, ridacchia, la prende con la mano sinistra e questa volta va via davvero.

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